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Dispersione relativa e coefficiente di variazione

Gli istogrammi di figura 4.2 mostrano un chiaro allargamento della distribuzioni in funzione del tempo. Questo può essere quantificato con le misure di dispersione viste nel paragrafo 5.4. Però, come è noto dalla vita quotidiana, la dispersione assoluta non è sempre il miglior criterio per stabilire se ci sono fluttuazioni rispetto ai valori tipici. Immaginiamo che una indagine mostri che il prezzo di una scatola di pelati sia intorno a 800 lire, ma con un campo di variazione compreso fra 400 e 1500 lire, mentre lo champagne varia fra 32$ ^\cdot $000 e 45$ ^\cdot $000 lire con un prezzo medio di 40$ ^\cdot $000. Si concorderà nel dire che le fluttuazioni sul prezzo dei pelati è superiore di quello dello champagne sebbene il campo di variabilità di quest'ultimo sia di un ordine di grandezza superiore a quello dei pelati (se i prezzi di una moto variano al più di 10$ ^\cdot $000 lire da un concessionario all' altro, diciamo, giustamente, che sono ``esattamente uguali''). Infatti, spesso siamo interessati alle fluttuazioni relative. Esse sono usualmente quantificate in termini della dispersione rapportata ai valori tipici ed è immaginabile pensare alla grande varietà di modi con cui può essere espressa la dispersione relativa. Accenniamo soltanto al coefficiente di variazione, definito a partire da media e deviazione standard:

$\displaystyle v=\frac{\sigma}{\vert\overline{x}\vert}\,,$ (5.35)

espressa a volte anche in percentuale. Il modulo serve a rendere tale misura di larghezza relativa indipendente dal segno della media (come lo è già la deviazione standard). Ad esempio, la distribuzione dei conteggi per $ T=3\,$s ha un coefficiente di variazione pari 1.35, o del 135%, mentre quella per $ T=300\,$s lo ha del 14%. Si dice quindi che la seconda distribuzione è relativamente più stretta della prima.


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Giulio D'Agostini 2001-04-02